Accolgo volentieri l'intervento di un'amica insegnante a proposito del maestro unico.
Il team docente. Dalla parte di chi ha meno voce
Chi, come me, lavora nelle elementari da qualche decennio, ha vissuto i grandi cambiamenti della scuola, l’ha vista crescere “dal di dentro” – non senza fatiche e contraddizioni – mossa da una grande passione educativa.
La Scuola primaria ha nel tempo cercato di rispondere alle diverse esigenze poste dalle trasformazioni sociali con offerte di qualità, con riforme largamente anticipate da sperimentazioni (è il caso del tempo pieno e dell’insegnamento in team); i cambiamenti più significativi sono stati ampiamente sostenuti da corsi di aggiornamento, perché non si avesse a che fare con operazioni di superficie. E se l’OCSE ha ancora una volta riconosciuto i meriti della Scuola primaria italiana, significa che il suo modo di operare può, in molti casi, essere portato ad esempio.
Non è più tempo di maestri unici. La scuola del “tutti in riga, e che non si senta volare una mosca”, ha denunciato già nel secolo scorso la propria inadeguatezza all’interno del sistema formativo, e recuperare tale modello per proporlo come toccasana per i problemi che attraversano famiglia e società, mi pare alquanto rischioso: ogni segmento formativo deve assumersi le proprie responsabilità, e nel riconoscimento dei rispettivi ruoli, trovare forme di dialogo e di collaborazione.
La frontalità – io spiego e tu ascolti - non è sempre il metodo di apprendimento più efficace neppure per gli adulti. C’è bisogno di protagonismo e coinvolgimento, di accoglienza e gratificazione: i bambini non sono robot inanimati, con teste ad imbuto da riempire, e l’insegnante, per quanto motivato e professionalmente preparato, è un essere umano, con limiti di energia e di specializzazione.
L’apprendimento stabile richiede tempi distesi, un conoscere che passa attraverso il dialogo, il fare con le mani, il confronto con il gruppo, l’approfondimento individuale. Metodi che possono dare frutto solo se si sta bene a scuola con i compagni e con se stessi: questa è una delle più grande consapevolezze sulla quale agisce la scuola primaria.
Ma la scuola è parte integrante del sistema sociale, del quale accoglie e riflette limiti, complessità, difficoltà, ed anche povertà. Mi domando come possa oggi un insegnante unico “dare di più a chi ha di meno”, considerato che problemi di attenzione e disturbi del comportamento sono largamente diffusi tra gli allievi, e che la classe nel suo insieme non va trascurata. Si plaude all’alunno inchiodato al banco, ma talvolta il silenzio che lo rende invisibile all’insegnante è la maschera di un disagio enorme. Il team insegnante è più funzionale anche da questo punto di vista, perché i docenti hanno modo di confrontarsi sulle problematiche della classe e di condividere le strade da praticare, fornendo al tempo stesso testimonianza di democrazia, di rispetto e di collaborazione. Oggi più che mai c’è bisogno di imparare il dialogo costruttivo, di recuperare la forza della tolleranza, valori civili che non si fanno propri solo attraverso lo studio sui libri.
Si mette sotto accusa il tempo delle compresenze del team, come se si trattasse di uno spreco di risorse. La contemporaneità di due insegnanti, alquanto risicata nei moduli 4 docenti su 3 classi o 7 su 5 classi (organizzazione che prevale nella maggior parte dei paesi d’Italia), permette di lavorare su piccoli gruppi intervenendo in modo tempestivo sulle difficoltà di apprendimento degli allievi, favorendo l’integrazione degli extracomunitari e non.
Al tempo del maestro unico chi non reggeva il ritmo “normale” dell’ apprendimento veniva respinto o finiva nelle classi differenziali. La scuola primaria non deve permettersi di emarginare nessuno, neppure attraverso promozioni vuote di preparazione. È nostro dovere etico fare il massimo per ogni bambino, perché possa affrontare la vita con strumenti il più possibile flessibili ed adeguati (anche se questo è uno degli obiettivi finali del percorso educativo).
L’insegnamento in team, o l’inserimento nella scuola dei portatori di handicap, per fare un altro esempio, non sono “anomalie” della Scuola italiana ma conquiste civili, che più volte ci sono state invidiate dagli Stati esteri. Ovvio che la promozione del “ben-essere” ha un suo costo.
La scuola dev’essere il luogo privilegiato su cui investire, anche se non tutti i frutti hanno visibilità immediata. Ciò che oggi può essere letto come un risparmio in termini economici, potrebbe in un futuro prossimo rivelarsi un pessimo investimento: aumento del disagio sociale, dell’abbandono scolastico, mancata integrazione degli extracomunitari, crescita dell’analfabetismo di ritorno. Perché la formazione del Cittadino esige tempo, confronto, operatività, studio e passione, condizioni che la migliore scuola primaria rispetta.
Il mio timore per il maestro unico va soprattutto verso gli ultimi, quelli che meno hanno voce, ma che sono in continuo aumento: per loro la scuola è l’unica occasione di crescita e di riscatto.
È importante che la Riforma della scuola primaria sia condivisa con chi nella scuola lavora, e perciò la conosce bene. L’insegnamento in team dei docenti specializzati in tre ambiti disciplinari è un valore da salvaguardare, nell’interesse immediato e futuro. L’insegnamento in équipe favorisce la competenza ed è scuola di democrazia. E’ la soluzione organizzativa più funzionale per promuovere nel bambino la conquista di quel sapere non mnemonico indispensabile per muoversi con criterio nella società attuale. È la condizione migliore per far emergere le potenzialità di ogni bambino, anche di quelli che meno hanno voce.
Bertilla Bertesina – Scuola primaria di Ponderano
Chi, come me, lavora nelle elementari da qualche decennio, ha vissuto i grandi cambiamenti della scuola, l’ha vista crescere “dal di dentro” – non senza fatiche e contraddizioni – mossa da una grande passione educativa.
La Scuola primaria ha nel tempo cercato di rispondere alle diverse esigenze poste dalle trasformazioni sociali con offerte di qualità, con riforme largamente anticipate da sperimentazioni (è il caso del tempo pieno e dell’insegnamento in team); i cambiamenti più significativi sono stati ampiamente sostenuti da corsi di aggiornamento, perché non si avesse a che fare con operazioni di superficie. E se l’OCSE ha ancora una volta riconosciuto i meriti della Scuola primaria italiana, significa che il suo modo di operare può, in molti casi, essere portato ad esempio.
Non è più tempo di maestri unici. La scuola del “tutti in riga, e che non si senta volare una mosca”, ha denunciato già nel secolo scorso la propria inadeguatezza all’interno del sistema formativo, e recuperare tale modello per proporlo come toccasana per i problemi che attraversano famiglia e società, mi pare alquanto rischioso: ogni segmento formativo deve assumersi le proprie responsabilità, e nel riconoscimento dei rispettivi ruoli, trovare forme di dialogo e di collaborazione.
La frontalità – io spiego e tu ascolti - non è sempre il metodo di apprendimento più efficace neppure per gli adulti. C’è bisogno di protagonismo e coinvolgimento, di accoglienza e gratificazione: i bambini non sono robot inanimati, con teste ad imbuto da riempire, e l’insegnante, per quanto motivato e professionalmente preparato, è un essere umano, con limiti di energia e di specializzazione.
L’apprendimento stabile richiede tempi distesi, un conoscere che passa attraverso il dialogo, il fare con le mani, il confronto con il gruppo, l’approfondimento individuale. Metodi che possono dare frutto solo se si sta bene a scuola con i compagni e con se stessi: questa è una delle più grande consapevolezze sulla quale agisce la scuola primaria.
Ma la scuola è parte integrante del sistema sociale, del quale accoglie e riflette limiti, complessità, difficoltà, ed anche povertà. Mi domando come possa oggi un insegnante unico “dare di più a chi ha di meno”, considerato che problemi di attenzione e disturbi del comportamento sono largamente diffusi tra gli allievi, e che la classe nel suo insieme non va trascurata. Si plaude all’alunno inchiodato al banco, ma talvolta il silenzio che lo rende invisibile all’insegnante è la maschera di un disagio enorme. Il team insegnante è più funzionale anche da questo punto di vista, perché i docenti hanno modo di confrontarsi sulle problematiche della classe e di condividere le strade da praticare, fornendo al tempo stesso testimonianza di democrazia, di rispetto e di collaborazione. Oggi più che mai c’è bisogno di imparare il dialogo costruttivo, di recuperare la forza della tolleranza, valori civili che non si fanno propri solo attraverso lo studio sui libri.
Si mette sotto accusa il tempo delle compresenze del team, come se si trattasse di uno spreco di risorse. La contemporaneità di due insegnanti, alquanto risicata nei moduli 4 docenti su 3 classi o 7 su 5 classi (organizzazione che prevale nella maggior parte dei paesi d’Italia), permette di lavorare su piccoli gruppi intervenendo in modo tempestivo sulle difficoltà di apprendimento degli allievi, favorendo l’integrazione degli extracomunitari e non.
Al tempo del maestro unico chi non reggeva il ritmo “normale” dell’ apprendimento veniva respinto o finiva nelle classi differenziali. La scuola primaria non deve permettersi di emarginare nessuno, neppure attraverso promozioni vuote di preparazione. È nostro dovere etico fare il massimo per ogni bambino, perché possa affrontare la vita con strumenti il più possibile flessibili ed adeguati (anche se questo è uno degli obiettivi finali del percorso educativo).
L’insegnamento in team, o l’inserimento nella scuola dei portatori di handicap, per fare un altro esempio, non sono “anomalie” della Scuola italiana ma conquiste civili, che più volte ci sono state invidiate dagli Stati esteri. Ovvio che la promozione del “ben-essere” ha un suo costo.
La scuola dev’essere il luogo privilegiato su cui investire, anche se non tutti i frutti hanno visibilità immediata. Ciò che oggi può essere letto come un risparmio in termini economici, potrebbe in un futuro prossimo rivelarsi un pessimo investimento: aumento del disagio sociale, dell’abbandono scolastico, mancata integrazione degli extracomunitari, crescita dell’analfabetismo di ritorno. Perché la formazione del Cittadino esige tempo, confronto, operatività, studio e passione, condizioni che la migliore scuola primaria rispetta.
Il mio timore per il maestro unico va soprattutto verso gli ultimi, quelli che meno hanno voce, ma che sono in continuo aumento: per loro la scuola è l’unica occasione di crescita e di riscatto.
È importante che la Riforma della scuola primaria sia condivisa con chi nella scuola lavora, e perciò la conosce bene. L’insegnamento in team dei docenti specializzati in tre ambiti disciplinari è un valore da salvaguardare, nell’interesse immediato e futuro. L’insegnamento in équipe favorisce la competenza ed è scuola di democrazia. E’ la soluzione organizzativa più funzionale per promuovere nel bambino la conquista di quel sapere non mnemonico indispensabile per muoversi con criterio nella società attuale. È la condizione migliore per far emergere le potenzialità di ogni bambino, anche di quelli che meno hanno voce.
Bertilla Bertesina – Scuola primaria di Ponderano
3 commenti:
Guarda, la coa che più mi infastidisce di questo governo è il metodo che adotta: cercano di passare una forma di dittatura per "decisionismo". Ho letto di recente un articolo su panorama, su questo "decisionismo", in cui fra le righe mi sembrava si facesse addirittura una revisione "positiva" del fascismo...
Bah... dove andremo a finire...?
Proprio per questo "decisionismo" sembra che il nano sia al massimo dei consensi...
condivisibili le amare riflessioni, ma la realtà è che la forbice è sempre più larga e che gli scarti nei livelli bassi sono ultimi, diseredati di diritti,rejetti, outsider, barboni. Gli altri, diventano lapi elkann.
le isole dei famosi rappresentano la triste metafora della realtà
L'ipotesi di Calamandrei.
"Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica,intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di previlegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole , perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi,come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili,si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola previlegiata.
Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico." Piero Calamandrei
Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma l’11 febbraio 1950
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